Mio figlio!
Salvatore Farina
9781465655912
200 pages
Library of Alexandria
Overview
Non lo aspettavamo più: anzi, per dire il vero, non lo avevamo aspettato mai. Ci eravamo sposati senza secondi fini, unicamente per isposarci, e il giorno delle nozze parve a me il più bello di tutta la mia vita, perchè con esso incominciava finalmente la vita nostra. Vedere qualche cosa di là da un grande amore, immaginare un'altra gioia diversa da quella di attraversare il mondo a braccetto nello stesso sentiero, Evangelina ed io, mi sarebbe sembrata l'offesa d'un nano al gigante che nutrivamo nel petto. Io scrivo «nutrivamo», perchè anche Evangelina mi amava molto, senza di che non si sarebbe adattata a diventare la signora Placidi. A quel tempo non avevo ancora scavato la miniera del codice di procedura civile, e lo studio dell'avvocato Placidi era poco più di una buona intenzione. Per giunta avevo allora, ed ho anche oggi, un nome di battesimo grottesco, di quelli che smorzerebbero un incendio amoroso. Mia moglie mi chiama Onda (ed è già una tribolazione), ma il mio vero nome — non lo credereste — tutto quanto il mio nome è Epaminonda. Si diceva dunque che non lo aspettavamo più, cioè che non lo avevamo aspettato mai, perchè ci eravamo sposati senza secondi fini. E sì che non erano mancati gli eccitamenti! Al nostro ritorno dal viaggio di nozze, parenti, amici, amiche, quanti ci aspettavano alla stazione, ci accolsero con certi sorrisi, che mi avrebbero messo in impiccio se non mi fossi preparato a ridere; la mia Evangelina, poveretta, era indifesa, e quanto più io rideva, tanto più essa si faceva rossa. Era quello che i parenti e gli amici volevano; si sarebbe detto che non mancasse altro alla loro felicità. — Ce l'hai? ce l'avete? — E guardavano negli occhi di mia moglie, la sottoponevano a un interrogatorio pieno di allusioni, di cui la poverina non capiva gran cosa, poi guardavano me dandosi l'aria di complici, o mi cacciavano un gomito nelle costole, socchiudendo un occhio. Mio suocero, un ometto pieno di buon umore e di vivacità, non faceva altro che girare intorno alla sua figliuola, e chiederle: — Me l'hai portato? — come se dovesse averlo nella valigia. Ci fu persino un professore di aritmetica, il quale, abusando della sua professione e della sua scienza, fece un calcolo ardito dinanzi alla mia Evangelina, e sostenne che, siccome noi ci eravamo sposati in luglio, lui doveva venire in marzo, con le prime viole. Naturalmente tutti costoro non dicevano mai chiaro di chi parlassero; ma non era difficile intendere che si trattava di mio figlio. Poi venne il quesito del sesso, e qui la disparità dei pronostici fu inconciliabile. Per mio suocero non correva dubbio, era un maschio (un ingegnere), ma la vecchia zia Simplicia, la quale si offriva di tenere la nostra creatura al fonte battesimale, diceva che doveva essere una femmina, e lasciava intendere in mille modi, senza dirlo, che il meglio che la nascitura Semplicetta potesse fare sarebbe di copiare col tempo le grazie semplici della madrina. Per accontentarli tutti, io rispondeva invariabilmente che mio figlio era neutro. E lo diceva ridendo, senza farmi un'idea della tortura inflitta a tutti i padri in erba di dover adorare per molti mesi un figliuolo senza sesso. Ma quando m'immaginavo di averli indotti in buon'ora a lasciare in pace la mia poveretta, non mancava mai un pensatore più arguto di me, il quale suggeriva serio serio a mia moglie il modo migliore di accontentare il babbo e la madrina: — Faccia il paio — diceva lui — posto che ci si è messa.