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Tizio Caio Sempronio

Storia mezzo romana

9781465643087
281 pages
Library of Alexandria
Overview
Lettori umanissimi, voi certamente non l'avete conosciuto, perchè egli fioriva un mezzo secolo prima dell'èra volgare, cioè a dire dopo il settecentesimo anno dalla fondazione di Roma. Chi? domanderete. Il protagonista del mio racconto, il chiarissimo Tizio Caio Sempronio, cittadino romano, dell'ordine dei cavalieri. Non lo confondete, per carità, coi cavalieri moderni, che sono di più ordini. A Roma i cavalieri formavano un ordine solo, ed erano, una delle tre spartizioni del popolo, fatte da Romolo, buon'anima sua. E quasi non occorre che io dica essere questi tre ordini, il patrizio, l'equestre e il plebeo; tutta brava gente che non vivevano molto in pace tra loro, ma che per un migliaio d'anni spadronarono utilmente su tutto il mondo conosciuto. La qual cosa mi conduce a pensare che gli storici abbiano un po' calunniato quel popolo, o per lo meno vedute le sue bizze domestiche con una lente d'ingrandimento. Ma non ci perdiamo in chiacchiere. Se vi piace, siamo all'anno 703 ab urbe condita, sotto i consoli Servio Sulpicio Rufo e Marco Claudio Marcello, egregie persone, di cui non so dirvi altro che il nome. Consoliamoci insieme, pensando che essi importano poco al nostro soggetto. Tizio Caio Sempronio era un gentil cavaliere, e bello, per giunta, come un dio di fabbrica ellèna. Si diceva che sua madre lo avesse concepito dopo essersi fortemente commossa alla veduta di una statua di Scopa. Aveva i capegli biondi e riccioluti, diritto il naso, breve il labbro superiore, il mento rotondo, l'orecchio piccolissimo; insomma, tutte le bellezze d'Apollo. E quando andava a diporto per la via Lata, o per la Flaminia, con le sue listerelle di porpora (clavus angustus) che scendevano parallele sul davanti della tunica, ed erano il contrassegno del suo ordine, gli facevano l'occhiolino le matrone, dal fondo delle loro lettighe, e gli uomini s'inchinavano, o si recavano la mano al cappello, secondo che andassero a capo scoperto, o portassero il pètaso. Gli uomini non lo onoravano già per la sua bellezza, s'intende; che anzi avrebbero dovuto invidiarlo e scoccargli un «i in malam crucem» dal profondo dell'anima. Queste delicatezze gli uomini ce le avevano in corpo fin da quell'ora; tanto è vero che la civiltà è antica e i suoi primordii si perdono nella notte caliginosa dei tempi. Tizio Caio Sempronio era un leggiadro cavaliere, l'ho detto; ma in compenso era anche ricco. Aveva grossi poderi a Tivoli e nell'agro Reatino, donde uscivano i suoi maggiori. Per altro, se il nostro cavaliere potea vantarsi Sabino d'origine, non lo si poteva riconoscer tale alla parsimonia proverbiale di quella gente. Tizio Caio Sempronio spendeva liberalmente tutte le sue entrate, e dell'altro ancora. Però andava per le bocche di tutti, e si faceva a gara per averlo amico. Uomini di vaglia, o giovani promettenti, come Cesare e Catilina, lo avevano in pregio; e perfino quel caro matto di Clodio, prima di far quella morte immatura, che tolse un altro salvatore a Roma e un grand'uomo alla storia, era stato in molta dimestichezza con lui. Mi affretto a soggiungere che Tizio Caio Sempronio non era uno dei loro in certi disegni politici. A cena, alle terme, sotto i portici, al teatro, sta bene, ma niente più in là. Il nostro bel cavaliere amava la Repubblica tal quale l'avevano lasciata i vecchi, e non sentiva il prepotente bisogno di rimutare le istituzioni. Era, pel suo tempo, quello che oggi si direbbe un conservatore.